Timore del giudizio e pratica yogica: elogio dell’imperfezione
Timore del giudizio e pratica yogica: elogio dell’imperfezione. L’ultima cosa che dobbiamo fare è giudicarci e giudicare la nostra pratica; si deve invece realizzare dove si è e lavorare su quello, prendere atto delle imperfezioni, accettarle e con pazienza limare e vedere che cosa possiamo farne di questo nostro corpo, di questo nostro cuore e di questa nostra mente. (Yoga con Giusi)
Elogio dell’imperfezione
(di Giusi Montali)
Il dissidio tra volere fare una cosa che ci dà piacere e non farla perché si teme il giudizio degli altri e il nostro – dal momento che sappiamo anticipatamente che i risultati saranno scarsi o poco proficui – è immobilizzante e ci impedisce qualsiasi azione. A volte, rinunciamo invece perché siamo ozios3 e non siamo in grado di gestire la frustrazione che ci deriva dal sapere che per padroneggiare tale attività piacevole occorrerà un lungo apprendistato e grande fatica. Ma così facendo ci autolimitiamo, condannandoci al silenzio e deprivandoci del piacere stesso, oltre che impedendoci qualsiasi evoluzione. Quanto la paura stessa del non riuscire ci condanna anticipatamente a uno scarso risultato e al fallimento?
Ad esempio, la paura di non sapere cantare mi ha fatto morire a lungo la voce in gola, ed ero così agitata dall’idea che gli altri potessero indicarmi come stonata (cosa peraltro vissuta con un senso di indicibile vergogna quando decenne venni apostrofata come tale dai miei compagni di classe) che la mia voce non usciva, oppure era flebile e confusa.
Poi compresi che aprendo il petto, rilassando le spalle, gestendo addome e diaframma, lasciando andare la paura del giudizio, non ero diventata intonata ma per lo meno la mia voce aveva acquisito un suono armonioso.
Il timore del giudizio, prima di tutto il mio, critico inflessibile e severo, e poi quello degli altri, ha caratterizzato anche la mia pratica yogica. Sbuffavo e mi avvilivo sentendomi goffa, rigida, a disagio con il mio corpo, al tempo stesso poco flessibile e debole, soprattutto se mi confrontavo con ben più prestanti compagn3 di tappetino… ma il piacere di scoprire di avere un corpo e che averne cura era un modo per togliersi di dosso tristezza e pesantezze, per spolverare via pensieri intrusivi e pensieri assorbiti da persone e circostanze, e che tali azioni di pulizia interna permettevano alla gioia e alla grazia di fluire, assaporando così la bellezza e il gusto del momento presente e infine della vita, ebbene il piacere derivato dalla scoperta era troppo e io lo volevo custodire e coltivare.
Poi scoprii che non era solo piacere ma anche impegno costante, assiduo, amorevole, a volte difficile e destabilizzante; era, come tutte le relazioni nutrienti, qualcosa di cui prendersi cura ben al di là di un facile ed esaltante piacere… era un percorso e come tale prevedeva alti e bassi, passaggi a vuoto, ritorni indietro, a volte anche smarrire la strada e la trebisonda, altre dura prova perché stendere il tappetino e praticare è l’ultima cosa che vorremmo fare… a volte siamo content3 della nostra pratica, altre no; a volte siamo in forma, altre dobbiamo fare conto con acciacchi e infortuni; a volte siamo seren3, altre pien3 di rabbia; a volte ridiamo, altre piangiamo; a volte siamo felici, altre tristi… ma siamo lì con il nostro corpo, il nostro cuore e la nostra mente e ciò che la vita è in quel momento.
L’ultima cosa che dobbiamo fare è giudicarci e giudicare la nostra pratica; si deve invece realizzare dove si è e piano piano lavorare su quello, prendere atto di tutte le nostre imperfezioni, accettarle e con pazienza limare e vedere che cosa possiamo farne di questo nostro corpo, di questo nostro cuore e di questa nostra mente…
E questo è ciò che dobbiamo osservare con attenzione e non la perfezione esteriore dell’asana, né tantomeno il confronto con un altro da noi: siamo esseri unici e speciali e perciò anche il nostro cammino è unico e speciale. E il cammino verso la perfezione è proprio nell’individuare la nostra peculiarità, nello scoprire cosa ci rende unici e speciali pur nel rispetto dell’altro da sé e nel riconoscimento che infine apparteniamo a una realtà più grande.
Perché il passaggio dall’imperfezione alla perfezione avviene attraverso la conoscenza di sé. E la perfezione umana altro non è che la possibilità di sviluppare le proprie facoltà, e ciò avviene solo quando diveniamo consapevoli dei nostri limiti ma anche della nostra perfettibilità, ovvero della possibilità intrinseca di miglioramento.
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